Non solo la duplicazione di software ma anche la semplice detenzione di programmi non originali costituisce reato. E poco vale per chi è colto con le mani nel sacco invocare un uso non finalizzato al lucro. A stabilirlo è stata la Cassazione con la sentenza 25104/2008 che ha confermato la condanna alla pena di 9400 euro di multa per il reato di cui all'art. 171 bis L.633/1941 (legge sulla protezione del diritto d'autore), un imprenditore colpevole di aver utilizzato nella propria azienda software duplicati. L’imprenditore, condannato in primo grado dal tribunale di Lecco per avere, al fine di trarne profitto, duplicato e riprodotto programmi software senza averne acquistato la licenza d'uso, aveva proposto ricorso sostenendo di avvalersi del software duplicato nello studio privato e per esclusivi scopi professionali interni allo studio medesimo e che quindi era tutt'al più configurabile un'ipotesi di responsabilità punibile con la sola sanzione amministrativa (ex art. 174 ter comma 1 L. 633/41, che punisce con la sola sanzione amministrativa l'abusivo utilizzo, per esclusivi fini professionali, di prodotti informatici, privi della licenza d'uso). Il giudice della Cassazione ha rigettato il ricorso come manifestamente infondato sostenendo che per la configurabilità del reato di cui all'art. 171 bis L.633/1941 (legge sulla protezione del diritto d'autore) non è richiesto che la riproduzione dei software sia finalizzata al commercio né il dolo specifico del fine di lucro: è sufficiente il fine di profitto, vale a dire il semplice vantaggio che il titolare d’azienda ottiene quando, anzichè acquistare tante licenze quanti sono i computer su cui va installato il software, da un solo originale trae il numero di copie sufficienti a soddisfare le proprie esigenze. La detenzione e l'utilizzo di numerosi programmi software, illecitamente riprodotti, nello studio professionale rende manifesta la sussistenza del reato contestato, sotto il profilo oggettivo e soggettivo.